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Frida Kahlo e il leone nell’armadio

Postato da Alberto Bertolazzi il
Frida Kahlo e il leone nell’armadio

Quel giorno, ed era un giorno come tutti gli altri in quel villaggio alla periferia di Città del Messico, qualcosa le diceva di cambiare posto. Era come se il sedile le parlasse: “Vai dietro, qui non fa per te!”. Non era la prima volta che sentiva parlare le cose. Faceva parte del suo mondo interiore: uno spirito dentro di lei che si incarnava fuori di lei. Più avanti avrebbero detto che era surrealismo. Comunque, uscita da scuola e salita sull’autobus, si sedette al solito posto. La vettura partì. Frida chiacchierava con Alejandro, che voleva fare il giornalista e studiava ed era pure bello. Mentre chiacchierava, vide con la coda dell’occhio il tram e sentì il campanaccio che suonava disperato. Fu un attimo e tutti gli oggetti dell’autobus incominciarono a gridare, prima ancora che lo facessero i passeggeri. Frida non voleva gridare, ma non fece in tempo ad abbracciarsi ad Alejandro: lo guardò senza capirne la terribile espressione del volto. Vide però subito i finestrini che si sbriciolavano e le parve persino di cogliere un saluto e un sorriso da parte del guidatore del tram, ormai entrato nella fiancata dell’autobus. Che il guidatore sorridesse, peraltro, era senz’altro fuori luogo, visto che lo schianto delle due vetture non sembrava affatto un evento di cui rallegrarsi. Ma forse era solo una smorfia di dolore. Comprensibilissima, tutto sommato.

Nel frattempo qualcosa accadeva anche sull’altro lato: un grande muro si stava schiantando contro l’autobus. O forse era l’autobus che si schiantava contro il muro, ma queste sono cose troppo relative per essere chiare, pensò Frida. Poi tutto divenne rosso, come il sangue che colava ovunque. E nero, come la notte che calò improvvisa sull’autobus, il tram, il muro, Frida ed Alejandro.

Frida si risvegliò in ospedale ed era già un’altra persona: tutti gli spiriti che covavano nel suo cuore erano usciti e non avrebbero più voluto rientrare. In compenso, nel suo corpo erano entrati quasi tutti gli oggetti che la circondavano nell’autobus. Aveva cento ossa spezzate e non c’era un centimetro del suo corpo che non urlasse di dolore. Subì 32 operazioni e dovette stare a letto per tanti mesi. Studiò e lesse molto. Poi cominciò a dipingere. E sulla tavola, con i colori, mise insieme gli spiriti, il dolore, la storia del suo Messico, lo stile naïf dei pittori che più amava - tra questi Diego Rivera, che sarebbe diventato suo marito - il comunismo, l’amore.

Abbiamo detto che, per cercare di riassumere il suo stile con una parola, dissero che era surrealismo. Lei scuoteva la testa e diceva: “Non so cos’è il surrealismo. Per me dipingere è qualcosa di giocoso: è la magica sorpresa di trovare un leone nell'armadio, là dove eri sicuro di trovare le camicie”.

Ecco come Frida Kahlo cominciò a diventare la più grande artista del mondo neolatino, e una delle donne più ammirate del Novecento.

I disegni che accompagnano questo articolo sono di Sacco e Vallarino e sono tratti dal libro Io sono Frida Kahlo di Carolina Zanotti, in cui l’artista messicana si racconta in prima persona, con linguaggio semplice, in una sorta di diario autobiografico.

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